Intervista per i lettori del Blog EfficaceMente al Professore Giorgio Nardone sul coaching, i coach e la Teoria delle Incapacità.

Giorgio Nardone Coaching

“Ogni teoria razionale, non importa se scientifica o filosofica, è tale nella misura in cui cerca di risolvere determinati problemi.”

K. Popper.

Ho approfittato dell’articolo dedicato alla Teoria delle Incapacità per richiedere al Prof. Nardone un’intervista su questa tematica nello specifico e sul coaching in generale. Spesso infatti ho l’impressione che l’industria nostrana di formazione piuttosto che concentrarsi sui risultati, si faccia un po’ troppo spesso trasportare dalle parole d’ordine del momento: da alcuni anni, termini come “coach” e “coaching” rientrano senza dubbio tra questi “tormentoni”.

Ho particolare stima per il Prof. Nardone e già in passato l’ho intervistato sul tema degli attacchi di panico e sull’importanza di distinguere psicoterapia e crescita personale. Se non ne hai mai sentito parlare, Giorgio Nardone è considerato uno degli esponenti di maggior rilievo della Scuola di Palo Alto (California). Il Professore è particolarmente famoso per aver ideato due modelli di intervento: la Terapia Breve Strategica, nell’ambito clinico, e il Problem Solving & Coaching Strategico, nell’ambito delle performance personali ed aziendali. Nell’intervista di oggi ci concentreremo su questo secondo modello.

Intervista sul Coaching

Andrea: apprezzo molto la chiara distinzione che lei fa tra psicoterapia, counseling e coaching. La psicoterapia si occupa di patologie invalidanti, il counseling di difficoltà non invalidanti ed il coaching di miglioramento delle prestazioni. Oggi però il termine coaching è spesso abusato e ci troviamo così con “coach” che hanno alle spalle giusto un weekend di formazione ed altri che vogliono applicare le metodologie di coaching agli ambiti più disparati. Può spiegare ai lettori di EfficaceMente cos’è il coaching nel dettaglio, in quali ambiti può essere applicato con successo e che tipo di percorso deve aver seguito un bravo coach?

Prof. Nardone: La parola “coaching” è apparsa per la prima volta sul finire del ‘900 negli Stati Uniti per indicare quell’attività specifica che vede un allenatore impegnato a sostenere, guidare e motivare una squadra o un singolo atleta per migliorarne le prestazioni in vista delle future competizioni. Da circa una decina di anni, però, questo termine si è esteso e generalizzato al di fuori dell’ambito sportivo in cui era nato, venendosi a configurare come un intervento indirizzato a un individuo o a un gruppo, con lo scopo di aiutarlo a ottenere risultati ottimali in ambito sia lavorativo che personale. Diffusosi ultimamente soprattutto in ambito manageriale, il coaching si differenzia dagli interventi di psicoterapia e consulenza poiché non è orientato alla cura di disturbi psicologici o alla risoluzione di specifici problemi, bensì allo sviluppo dei talenti, nella direzione di fare emergere a pieno le potenzialità degli individui a vantaggio di una competenza da sviluppare o di un risultato da migliorare.

Professione in rapida e crescente espansione, il coaching trova applicazione nei più diversi ambiti personali e professionali. In ambito imprenditoriale – dai business tradizionali all’e-commerce; da imprese consolidate a imprese in fase di lancio – il coach focalizza il proprio intervento nell’aiutare l’imprenditore a sviluppare business plan specifici e personalizzati. In situazioni come coppie, famiglie, team (sportivi o di lavoro) e comunità, il coach è invece chiamato per migliorare la qualità dell’interazione e dei risultati attraverso la rilevazione delle forze e delle debolezze del contesto e il conseguente sviluppo di piani adeguati per produrre i cambiamenti necessari. Il coaching individuale – il più noto e frequente (chiamato anche “life coaching“) – si caratterizza per un rapporto esclusivo tra due persone – il coach e il “coachee” (manager, atleta, personaggio dello spettacolo…) -, in cui il primo aiuta il secondo a focalizzare i propri obiettivi e priorità e lo supporta, in termini prevalentemente motivazionali, nel mantenere e portare a termine il programma stabilito. E la lista delle diverse tipologie di coaching potrebbe allungarsi a dismisura.

Il termine coaching, infatti, ha raggiunto in pochissimo tempo una molteplicità di significati ed applicazioni che, secondo le leggi mediatiche più tipiche della nostra epoca, ha visto anche un contemporaneo proliferare di dissertazioni teoriche ed estese bibliografie sul tema. Un’ampia schiera di professionisti, provenienti dalle più diverse discipline, ha trovato la possibilità di proporsi e proporre la propria idea al riguardo. Una sorta di “corsa verso l’ovest”, alla conquista di territori inesplorati e suggestivi per la possibilità di interventi e per le opportunità percepite. Una corsa velocissima, ognuno con la propria bandiera da conficcare e tutti diversi l’uno dall’altro per le risorse, i mezzi, gli strumenti, le conoscenze e le esperienze da mettere in gioco. Ma a differenza della vecchia corsa all’oro, prevalentemente individuale, questa è una corsa in cui i partecipanti sono costretti ad interagire e a collaborare l’uno con l’altro nel creare questa nuova professionalità, prevedendo il rispetto di alcune regole fondamentali. La prima è quella per cui ogni intervento di coaching trova significato e valore solo attraverso il riscontro oggettivo degli obiettivi e dei traguardi progressivamente raggiunti. In altri termini, non esiste un intervento di coaching se non ci sono successi. Il coaching, dunque, è innanzitutto l’espressione di una professionalità assolutamente pragmatica e come tale impone, ai coach e ai loro interlocutori , l’assunzione di responsabilità precise e a volte impegnative. Un buon coach deve sapere guidare il cliente a sviluppare i propri talenti in vista del raggiungimento di specifici obiettivi, e lo deve fare nel modo il più possibile rapido ed efficace. Ecco quindi che i criteri pragmatici di efficacia ed efficienza si configurano come elementi fondamentali nella scelta del modello di coaching da utilizzare.

Il mio modello, il coaching strategico, si distingue dagli altri approcci per alcune caratteristiche fondamentali. La prima è quella per cui, pur concordando sull’obiettivo di utilizzare e valorizzare le risorse disponibili, possiede una metodologia estremamente efficace ed originale per sbloccare le eventuali trappole che impediscono il pieno utilizzo delle capacità del soggetto. Il coach strategico guida la persona o il gruppo a sviluppare nuove prospettive e percezioni della realtà e delle proprie risorse, a vivere esperienze nuove e spesso inaspettate, e, grazie a questo, a sviluppare le capacità necessarie per ottenere più elevati livelli di apprendimento, performance e gratificazione. Da questo punto di vista, il coaching strategico è fondamentalmente un percorso di “autosviluppo”, in cui la persona viene guidata a far emergere potenzialità e risorse che potrà poi utilizzare anche in contesti e situazioni differenti rispetto a quelli che hanno fatto emergere la richiesta di quello specifico percorso di coaching. Questo lo rende uno strumento decisamente più potente di altre forme tradizionali di coaching, spesso centrate esclusivamente sul conseguimento di un risultato circoscritto e immediato piuttosto che sullo sviluppo del potenziale della persona. Tutto questo è reso possibile grazie alle profonde radici teoriche ed epistemologiche a cui il coaching strategico attinge, così come alla estesa pratica operativa, sperimentata e consolidata nei contesti più differenti inerenti al cambiamento. Questa metodo, infatti, rappresenta solo l’ultima evoluzione applicativa di principi teorici e metodologie operative elaborati e applicati sia nell’attività clinica che nell’ambito organizzativo presso il nostro Centro di Arezzo e dai 150 studi affiliati nel mondo.

Diventare un coach strategico è un duro percorso formativo che prevede una competenza specifica ed articolata nell’ambito del problem solving. Un coach, infatti, deve in primo luogo saper individuare e riconoscere la presenza di eventuali blocchi, emotivi, cognitivi o comportamentali, capaci di impedire il più completo esprimersi delle risorse personali del suo cliente. In secondo luogo, è indispensabile che il coach disponga anche di conoscenze e “strumenti” capaci di facilitare, nel modo più efficace e veloce possibile, il superamento di tale blocchi, qualora questi risultino di limitazione all’emergere dei talenti della persona. Parallelamente, deve saper utilizzare tutte le modalità della comunicazione strategica, di conseguenza essere un professionista creativo e flessibile, ma allo stesso tempo rigoroso e disciplinato, saper padroneggiare l’arte dello stratagemma e allo stesso tempo la comunicazione persuasoria, saper stimolare risorse già esistenti così come sbloccare potenzialità bloccate. Come l’antico saggio stratega della tradizione cinese, il coach strategico:

“non fa niente di difficile; e dato che si limita ad innescare discretamente processi che si svilupperanno da sé, non fa neppure nulla di grande. Ma è appunto per questo che è in grado di compiere ciò che alla fine sarà grande.”

Giorgio Nardone.

Andrea: Collegata alla precedente domanda, in un recente articolo ho sottolineato l’importanza delle competenze: a mio avviso, senza lo sviluppo di approfondite competenze non esiste strategia di crescita personale o di coaching che ci consenta di raggiungere i nostri obiettivi. Insomma, prima di lavorare su ciò che blocca le nostre capacità, quelle capacità dobbiamo averle sviluppate. Qual è la sua opinione a riguardo? Il coaching si rivolge anche alla casalinga di voghera? Possono beneficiarne solo quelle categorie di professionisti (atleti, manager, etc.) che hanno già delle dimostrate competenze? Chi altro può ottenere risultati efficaci grazie alle strategie di coaching?

Prof. Nardone: Nel coaching strategico, ogni intervento viene attuato sulla base degli obiettivi concordati con la persona che possono essere di svariato genere ma che, al fine di essere raggiunti, richiedono una definizione precisa in termini pragmatici da parte della persona stessa. In questo modo, l’intervento sarà cucito su misura sul richiedente e gli obiettivi concreti orienteranno il percorso di miglioramento della persona e di eventuale superamento di limiti che dovessero mano a mano presentarsi; siano essi emotivi, di comunicazione/relazione, o di problem solving. Specificato questo, risulta evidente che non faccia differenza se chi ci richiede l’intervento sia casalinga, professionista nei campi più svariati o chi deve trovare ancora una collocazione, purché lo stesso venga calzato su chi abbiamo di fronte.

Andrea: Abbiamo visto cos’è il coaching, chi è il coach e a chi si rivolge il coaching, mi piacerebbe ora approfondire con lei alcuni aspetti del modello di analisi e ristrutturazione delle capacità personali, che ho presentato nell’articolo a cui questa intervista è collegata. Nel primo livello di analisi si parla delle 4 incapacità: incapacità di (1) trovare una soluzione, di (2) applicarla, di (3) mantenerla e di (4) sostenerne gli effetti collaterali. Può gentilmente spiegarci la differenza tra le ultime due incapacità? Spesso non riusciamo a mantenere una soluzione proprio perché ne avevamo sottovalutato gli effetti collaterali: un esempio pratico sarebbe molto utile per mettere in evidenza la distinzione tra le due incapacità.

Prof. Nardone: Immaginiamo una situazione apparentemente banale, ma che si riscontra frequentemente ed è generalizzabile a sistemi di vario genere, nella quale un figlio chieda a un genitore qualcosa che il genitore non ritiene debba essere concesso. A questo punto, in risposta al rifiuto, il figlio comincia a piangere talmente tanto che, dopo uno, due, tre “no”, il genitore cede concedendo al figlio quello che prima era stato negato, ritenendo che la strategia adottata fosse magari troppo rigida o inadeguata in quello specifico contesto. In questo caso non mantengo il “no” abbastanza a lungo da far arrivare al figlio il messaggio che non è piangendo che ottiene, e gli trasmetto invece l’input che continuando a piangere prima o poi otterrà. Immaginiamo ora la medesima situazione, nella quale però il cambiamento di rotta non sia dovuto a una ritenuta errata strategia, ma piuttosto all’incapacità del genitore di sostenere il dolore provocato al figlio, così bene espresso dal pianto sempre più esasperato. In questo secondo caso, la comunicazione indiretta ma molto forte è che il pianto è una strategia efficace per colpire il genitore in un punto debole, quindi rappresenta una dal suo punto di vista ottima soluzione per ottenere ciò che si desidera.

AndreaLa lotta alla procrastinazione è una delle tematiche chiave che tratto qui su EfficaceMente. Applicando la “lente” del suo modello, la tendenza a rimandare continuamente i nostri impegni potrebbe essere vista ad esempio come un’incapacità ad applicare la soluzione: sappiamo esattamente cosa dobbiamo fare, ma una qualche “forza magica” sembra spingerci a fare tutt’altro. Può suggerire ai lettori di EfficaceMente delle strategie pratiche da mettere in campo per smettere di procrastinare, nello studio e nel lavoro?

Prof. Nardone: In realtà, la procrastinazione può essere l’effetto di diverse psicotrappole che, in quanto tali, richiederanno differenti psicosoluzioni, che naturalmente non possono essere esaurite in questo contesto. Quello che qui posso suggerire è di, qualunque sia la pendenza della montagna da scalare, evitare di perdere di vista sé stessi, concedendosi ogni giorno uno spazio all’interno del quale prendersi cura di sé nella propria relazione, appunto, con sé, con gli altri e con il mondo. Del resto, il primo ingrediente per spingere la propria vita nella direzione desiderata, ritengo sia far del bene a coloro con cui ogni giorno abbiamo a che fare, in primis noi stessi; se diamo il meglio di noi, ci tornerà indietro molto di più di quello che abbiamo dato. Questo è una specie di “virus” che, unito a piccole strategie costruite ad hoc e individualizzate, aiuta a costruire quello che poi si gestisce; non più vittime di noi stessi, dunque, ma artefici del destino di cui siamo responsabili. Che ci piaccia o no, infondo e infine, siamo destinati ad essere liberi.

Mi auguro tu abbia apprezzato questa intervista. Personalmente, oltre a questa risposta conclusiva dedicata alla procrastinazione e alla cura di sé stessi, il passaggio che ho preferito è stato questo:

“Non esiste un intervento di coaching se non ci sono successi.”

Giorgio Nardone.

Insomma il bigliettino da visita con su scritto “Coach” non serve a nulla se non si è in grado di portare a casa dei risultati concreti. Spero che quanto abbiamo visto nell’articolo dedicato alla Teoria delle Incapacità e in questa intervista ti abbia aiutato a fare un po’ di chiarezza su queste tematiche. Non mi resta che augurarti buona settimana. A presto, Andrea.

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Foto di Giorgio Nardone.

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